"Già nei tempi più remoti i giapponesi avevano l'idea di essere un paese fatto di canne fragili e flessibili, costruito con la carta che prende fuoco, che si sposta e va via col vento, con un'architettura "reversibile e attraversabile", integrata in una natura coltivata; sono i paradigmi di cui parlavo nel Lotus n. 107 a proposito delle mie ricerche sui modelli di urbanizzazione debole, e anche nel dialogo con Stefano Boeri a proposito di una modernità debole e diffusa, che produce trasformazioni territoriali più simili a "favelas ad alta tecnologia" che alle metropoli dell'epoca meccanica."
p. 74, Lotus navigator, intervista di Alessandro Rocca ad Andrea Branzi
"Costruire bene le cose, gli incastri, le lacche, ecc., è un impegno etico, religioso, da cui deriva la loro grande motivazione spirituale nel fare bene le cose materiali, tecniche. Ma il loro impegno nasce sempre dai micro-sistemi ambientali, dalla piccola scala degli ikebana, dai tatami, loro non fanno mai progetti giganteschi, scenari generali, il progetto urbanistico non gli appartiene come idea di disegno territoriale come metafora di ordine.
Quindi, secondo te, Sejima sarebbe la più orientale di questo gruppo di architetti?
Mi sembra che sia come illuminata da una luce spirituale, come lo era a volte Shiro Kuramata. Diciamolo senza retorica, però oggettivamente è vero. Ci sono cose che hanno chiaramente una carica che non ha nulla a che vedere con l'eleganza, che hanno uno spirito di perfezione di radice assolutamente etica, da illuminati, e sempre nelle piccole dimensioni. Infatti nessuno di loro regge il grande progetto urbano, e mi sembra che anche Tadao Ando si perda quando esce dal suo cubetto, mentre Arata Isozaki, che invece è molto più occidentale, ècapace di produrre sistemi più vasti."
p.76
"A me piace moltissimo questa architettura che non ha volto, un po' come nella profezia di Adolf Loos, all'esterno non ha un linguaggio recepibile, è morta, o comunque è una realtà grigia, supporto neutro per altre comunicazioni, non ha più i codici adeguati, però nel suo interno rinasce continuamente."
p.77
"Secondo me loro operano sempre in un grande interno... Tokyo è una specie di grande e unico interno, e quindi fanno oggetti di architettura che sono fuori scala, che sono gli sviluppi perfetti dell'Ikebana. Quindi non fanno riferimento alla città, anzi ne sono l'alternativa totale: cioè un punto di perfezione assoluto dentro un contesto fuori controllo. In questo senso sembrano uasi degli architetti del Rinascimento italiano, che avevano come contesto la città medioevale, cioè il loro opposto. Loro hanno un atteggiamento complessivamente molto drammatico. Gestiscono tutto questo con grande eleganza e con assoluta serenità però sono tra quelli che avvertono di più (forse in forma subliminale) il fatto che i grandi terremoti o i grandi disastri naturali sono delle metafore di altri grandi disastri possibili, dal fallimento complessivo di tutto il sistema economico e politico mondiale; e questa è la cosa che dà loro un senso più vasto, un significato politico più generale, anche nei nostri confronti.
p.80
"Segmenti di architettura, oggetti di architettura. I giapponesi non hanno mai presupposto che la città avesse una forma o che avesse un senso; a partire dall'antica Edo, che era una città fatta sulle risaie, una città che galleggiava, cioè un insieme di costruzioni sconnesse che non si connettono neppure stabilemente tra di loro a terra. Anche il piano utopico di Tange negli anni '50 per la nuova Tokyo, è fatto entro la baia, sull'acqua. Quindi a loro non appartiene l'idea di unità della città. Non gli è mai storicamente appartenuta, e quindi non capiscono nemmeno di cosa si parli a proposito della sua crisi"
p.84
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