mercoledì 10 febbraio 2010

Andrea Branzi e Giappone

"Già nei tempi più remoti i giapponesi avevano l'idea di essere un paese fatto di canne fragili e flessibili, costruito con la carta che prende fuoco, che si sposta e va via col vento, con un'architettura "reversibile e attraversabile", integrata in una natura coltivata; sono i paradigmi di cui parlavo nel Lotus n. 107 a proposito delle mie ricerche sui modelli di urbanizzazione debole, e anche nel dialogo con Stefano Boeri a proposito di una modernità debole e diffusa, che produce trasformazioni territoriali più simili a "favelas ad alta tecnologia" che alle metropoli dell'epoca meccanica."

p. 74, Lotus navigator, intervista di Alessandro Rocca ad Andrea Branzi

"Costruire bene le cose, gli incastri, le lacche, ecc., è un impegno etico, religioso, da cui deriva la loro grande motivazione spirituale nel fare bene le cose materiali, tecniche. Ma il loro impegno nasce sempre dai micro-sistemi ambientali, dalla piccola scala degli ikebana, dai tatami, loro non fanno mai progetti giganteschi, scenari generali, il progetto urbanistico non gli appartiene come idea di disegno territoriale come metafora di ordine.

Quindi, secondo te, Sejima sarebbe la più orientale di questo gruppo di architetti?

Mi sembra che sia come illuminata da una luce spirituale, come lo era a volte Shiro Kuramata. Diciamolo senza retorica, però oggettivamente è vero. Ci sono cose che hanno chiaramente una carica che non ha nulla a che vedere con l'eleganza, che hanno uno spirito di perfezione di radice assolutamente etica, da illuminati, e sempre nelle piccole dimensioni. Infatti nessuno di loro regge il grande progetto urbano, e mi sembra che anche Tadao Ando si perda quando esce dal suo cubetto, mentre Arata Isozaki, che invece è molto più occidentale, ècapace di produrre sistemi più vasti."

p.76

"A me piace moltissimo questa architettura che non ha volto, un po' come nella profezia di Adolf Loos, all'esterno non ha un linguaggio recepibile, è morta, o comunque è una realtà grigia, supporto neutro per altre comunicazioni, non ha più i codici adeguati, però nel suo interno rinasce continuamente."

p.77

"Secondo me loro operano sempre in un grande interno... Tokyo è una specie di grande e unico interno, e quindi fanno oggetti di architettura che sono fuori scala, che sono gli sviluppi perfetti dell'Ikebana. Quindi non fanno riferimento alla città, anzi ne sono l'alternativa totale: cioè un punto di perfezione assoluto dentro un contesto fuori controllo. In questo senso sembrano uasi degli architetti del Rinascimento italiano, che avevano come contesto la città medioevale, cioè il loro opposto. Loro hanno un atteggiamento complessivamente molto drammatico. Gestiscono tutto questo con grande eleganza e con assoluta serenità però sono tra quelli che avvertono di più (forse in forma subliminale) il fatto che i grandi terremoti o i grandi disastri naturali sono delle metafore di altri grandi disastri possibili, dal fallimento complessivo di tutto il sistema economico e politico mondiale; e questa è la cosa che dà loro un senso più vasto, un significato politico più generale, anche nei nostri confronti.

p.80

"Segmenti di architettura, oggetti di architettura. I giapponesi non hanno mai presupposto che la città avesse una forma o che avesse un senso; a partire dall'antica Edo, che era una città fatta sulle risaie, una città che galleggiava, cioè un insieme di costruzioni sconnesse che non si connettono neppure stabilemente tra di loro a terra. Anche il piano utopico di Tange negli anni '50 per la nuova Tokyo, è fatto entro la baia, sull'acqua. Quindi a loro non appartiene l'idea di unità della città. Non gli è mai storicamente appartenuta, e quindi non capiscono nemmeno di cosa si parli a proposito della sua crisi"

p.84

venerdì 5 febbraio 2010

Shinjuku simulated city

testo di Toyo Ito tratto dalla rivista JA Japan architects n.3 summer 1991

"Tokyo is evolving more and more into a state that can be defined as "Simulated city". Life is largely predeterminated by consumerism situated in a stage set-like urban space that is perpetualy changing. It is the "Tokyo Nomadic Girls" who enjoy this tipe of life style the most. The live alone and are unrestricted by the old conventions of family life. The hit the keyboards in "intelligent office" (higly computerized office building) during the daytime, and wander into the urban stage set of night life after work with their boyfriends. They eat and drink in the cafebars designed by trendy designers, they shop in departent stores where the latest design items are on display. They go out to the movies, and work out in the gym. For them, cafebars and movie teathers are an extension of their living room, restaurants replace their dinning room. Work out gym is thier garden, and boutique are their walk-in closet. 24 hour convenience stores are their refrigerator. They become the eroines of the superficial, simulative, temporary space that assimilates the glitzy stage set. They are living as if in a dream or fairy tale.
What is the reality of life for them? How can define the meaning of a place of communication among themselves? You are to develop the programmatic proposition that also integrates three differently characterized areas into one dynamic one by connectiong the flow of people, cars and energy.
The final proposal is to be presented by the representation of the building as a physical substance. It is important to re-examine the meaning of making architecture in the simulated context of today through the proposition of physical building."

p.50

mercoledì 3 febbraio 2010

Hara 1

tesi di dottorato di Federisco Scaroni

"Tornando comunque a parlare di contesto urbano, posso assicurati che i migliori esempi di contesto a scala umana li ho trovati nei più piccoli villaggio che ho descritto. Una parte della mia ricerca è consistita nel comleto rilievo di questi villaggi"

p.142

"A questo riguardo (parlando di Aldilà...) di recente mi sono riletto La Divina Commedia di Dante Alighieri. Mi sono profondamente sorpreso di non aver quasi trovato accenni all'esistenza di finestre nel testo. Ci sono porte e cancelli ma una o due finistre al massimo.[...] Nella letteratura giapponese non si può trovare alcuna descizione di architettura metafisica." Forse in Murakami?

p.141

"Sia quando ho progettato la stazione di Kyoto, che lo Yamato intarnational building a Tokyo, ho immaginato che sull'intera lunghezza della facciata lo spazio si stesse modificando in un tempo brevissimo, proprio perchè credo nel movemento perpetuo. Ho applicato molte volte questo concetto alla mia architettura e la cosa strana è che questo sitema di pensiero progettuale l'ho ritrovato solamente nel modo di pensare giapponese. Ma molti degli studi su tempo e spazio vengono dall'Europa."

p.141

"Se parliamo di contesto urbano, probabilmente hai ragione, ma c'è un problema di fondo in questa logica. I giapponesi tradizionalmente non credono nel "contesto urbano", proprio per la sua transitorietà. Domani potrebbe esserci una demolizione, un terremoto o un incedio a cambiare tutto. Ma in effetti con questo tipo di attitudine mentale si può trovare sempre una verità."

p.140

"Per tornare al problema della scala e del fuori scala in Giappone, la storia del monaco buddista Kamo No Chomei (1155-1216) è un esempio molto interessante di fuori scala cercato che risale al periodo Heian. Egli cercò di insegnare il Buddismo attraverso l'architettura. Egli scrisse un testo chiamato Hojoki (1212), una sorta di diario romanzato, nel quale narra di come la sua casa fosse stata distrutta da un incendio a seguito di un terremoto. Egli decise di ricostruirla ad un decimo della dimensione originaria. Ma il risultato non lo soddisfece e rimediò al suo errore ricostruendola ad una dimensione di un decimo rispetto alla seconda. Di fatto la casa di cui si dichiarò soddisfatto era grande un centesimo della sua casa originale. E questo è un buon esempio di fuori scala in Giappone (ride) [...] Soldamente se percepisci la piccola scala, puoi percepire la più grande scala di tutte, la Natura.

p.139

"Noi giapponesi ammiriamo profondamente la cultura europea. Ma allo stesso tempo, cerchiamo di avere la speranza che gli europei cerchino veramente di capire quello che noi facciamo, come pensiamo."

p.140